OMELIA PUBBLICATA DA ADISTA PER IL 14 SETTEMBRE 2014
L’AMBIGUITÀ DELLA CROCE
«Come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così bisogna che sia
innalzato il Figlio dell’uomo, perché chiunque crede in lui abbia la
vita eterna» (Gv. 3, 14-15). Nel corso della stesura dei Vangeli si
fecero strada ben presto due idee fondamentali riguardo alla morte in
croce di Gesù: che non fosse stata un fatto contingente ma contenesse in
sé qualcosa di necessario (in Giovanni: “bisogna che”) e che avesse
portato con sé qualcosa di assolutamente buono (in Giovanni: “la vita
eterna”). Questo non significa che la riflessione dei credenti sulla
tragica fine di Gesù si sia interrotta a questo punto, anzi si potrebbe
pensare alla teologia cristiana come a una continua meditazione,
esplicita o implicita, attorno al significato di tale catastrofico
evento, che però spesso non è stata capace di rimanere collegata
all’esperienza originaria. In una prospettiva apocalittica (qui
richiamata anche dall’espressione “Figlio dell’uomo”) la catastrofe è
l’inizio di un nuovo mondo. Nel Vangelo di Giovanni, l’immagine del
parto come afflizione che si trasforma improvvisamente in gioia è
metafora della tristezza della morte che fa scomparire Gesù dalla vista
dei discepoli, ma immediatamente dopo li colma di gioia stabile e
perenne, trasferendoli in uno stato esistenziale estatico che
addirittura elimina la necessità di continuare a farsi domande (Gv. 16,
21-22). Il Vangelo di Giovanni mostra che, di fronte alla morte violenta
di Gesù, tutte le domande e i tentativi razionali di risposta
naufragarono nell’esperienza di straordinaria intensità spirituale (la
vita eterna) che pervadeva la comunità e che era sorta in mezzo ai
discepoli e alle discepole dopo la catastrofe della croce (la quale
quindi, in un certo senso, bisognava che accadesse). Fu, insomma,
dall’interno di una situazione di gioia inaudita che gli autori del
Vangelo di Giovanni lessero la croce di Cristo, trasferendo su di essa
le qualità di gloria e luminosità della loro esperienza. Una buona
terapia per le follie che hanno abitato la teologia cristiana fino ad
oggi nel nome della croce (penso soprattutto all’esaltazione del dolore e
alla glorificazione della violenza) potrebbe partire semplicemente da
qui: ogni volta che pensiamo a un evento doloroso e tragico come
possibile in un futuro più o meno immediato, il nostro compito non è
comprendere o giustificare tale evento ma è fare di tutto per evitare
che avvenga; se è già avvenuto, al contrario, il nostro compito è
verificare se e come possa essere in qualche modo assorbito
simbolicamente dalla croce di Cristo come apertura di una nuova e
inaudita possibilità di vita. Pensare alla morte come nascita significa,
in questo caso, accorgersi che nemmeno la morte ha il potere di fermare
la vita. Una fiducia così radicale nasce nella comunità giovannea
quando, subito dopo la fine di Gesù, al senso di abbandono e di assenza
si affianca una forza potente di amore e di compassione che ben presto
occupa tutto lo spazio. Il Vangelo di Giovanni parla solo per simboli di
questa energia: il soffio del Risorto sulla comunità riunita (Gv.
20,22), i fiumi d’acqua viva che sgorgano dal seno del credente (Gv.
7,38). È questa straordinaria energia di vita il punto di vista dal
quale la comunità giovannea guarda alla croce, rendendosi conto che “era
necessario” che il Maestro li lasciasse soli perché tale forza si
sprigionasse. L’antico racconto del serpente innalzato nel deserto
perché guarisse chi fissava lo sguardo su di esso (Nm. 21, 4b-9) torna
così ad essere significativo come test della salute della nostra
teologia. Se fissare lo sguardo sulla croce provoca tentativi di
imitazione delle sofferenze di Cristo o favorisce, in nome di tali
sofferenze, una teologia di condanna, ciò va denunciato come lontano
dallo Spirito di Cristo. Ma fissare lo sguardo sulla croce può anche
richiamare alla nostra memoria la sua vita di amore radicale e, più in
particolare, può ricordarci che la sua dipartita fu il momento in cui i
discepoli e le discepole, non potendo più pendere dalle sue labbra,
dovettero aprirsi all’ispirazione del vento che «soffia dove vuole» (Gv.
3,8), una sorta di turbine di verità diverse che arrivavano dai quattro
punti cardinali. Ed è proprio in questo modo, non chiedendo l’adesione
pedissequa a un codice o a delle autorità, che il Maestro continua
perennemente a dare vita.
23/03/15
02/03/15
La creatività nella Spiritualità del Creato
seminario esperienziale
1-3 maggio Sezano (Verona)
Incontrare, sperimentare, abitare la creatività
secondo la Spiritualità del Creato proposta da Matthew Fox.
La via creativa sottolinea l’unicità di ogni persona, e il metodo foxiano, attraverso l'arte come meditazione, si propone di lasciar emergere le immagini profonde che abitano in noi e che sono una sorgente di guarigione per noi stessi e per gli altri. Questo seminario a carattere esperienziale permetterà di contattare la nostra creatività con uno scopo spirituale, cioè non rivolta alla produzione di oggetti d'arte, ma intesa ad esplorare ed espandere noi stessi in profonda connessione con gli altri e con la dimensione cosmica del nostro essere. Crediamo che in un contesto educativo segnato dal predominio della razionalità astratta, su cui si fonda in ultima analisi ogni forma di violenza, la proposta di Fox riguardo alla creatività rappresenti una vera e propria sfida culturale e spirituale. Esploreremo dunque non a parole, ma calandoci nell’esperienza personale, la nozione foxiana secondo cui l’essere “a immagine di Dio” consiste principalmente in creatività e compassione.
www.spiritualitadelcreato.it
Questo seminario sulla via creativa segue quello sulla via transformativa che abbiamo vissuto lo scorso ottobre... è anche nata l'Associazione Spiritualità del Creato (vedi sito).
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